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Boom di locali domestici con i padroni di casa a fare da chef. L’associazione: «Attività abusive e pericolose per la salute»

C’è la crisi, ceno in casa. Anzi di più, mi faccio il ristorante in salotto. L’hanno pensato in tanti, e in tanti già lo fanno. Si chiamano home restaurant o supper club, funzionano più o meno come le case particular di Cuba: i proprietari aprono le porte agli ospiti, che non sono parenti e amici, e cucinano per loro, dietro adeguato compenso, quasi sempre cifre modeste, intorno ai venti euro, e spesso piatti tipici della tradizione locale. L’attività nasce con una connotazione social – e infatti si presentano come eventi e si pubblicizzano su Facebook o su altre piattaforme create ad hoc – ma funziona così bene che sta diventando qualcosa di molto simile a un’attività imprenditoriale. Le cucine casalinghe si dotano di un logo, i menù si arricchiscono, nascono siti web per organizzare l’offerta e il fenomeno comincia a disturbare i concorrenti naturali, ossia i ristoranti e le trattorie, per i quali gli home restaurant diventano nemici più o meno come gli affittacamere (o affitta-case) – ad esempio Airbnb, ormai diffuso in tutto il mondo – sono ormai avversari terribili per gli alberghi. L’Appe di Padova, che dei pubblici esercizi difende gli interessi, ora parla espressamente di «attività abusive e illecite», chiede l’intervento del Nas, della Guardia di finanza e dell’Agenzia delle Entrate e sottolinea, casomai a qualcuno sfuggisse, che non ci sono tutele dal punto di vista della salute. Insomma, chi va a mangiare a casa di un altro lo fa a proprio rischio e pericolo.

Ma la materia è a dir poco controversa. E il fenomeno si è evoluto con relativa rapidità, comunque troppo velocemente rispetto alla normativa (in Italia il disegno di legge sugli home food giace da anni in parlamento, in attesa di una discussione). Dieci anni fa c’erano i guerrilla restaurant: il padrone di casa chiamava un cuoco professionista a casa e gli metteva a disposizione la cucina per una cena speciale da offrire agli amici. C’era già motivo di dubitare del rispetto delle norme igieniche. Ma non c’è stato neppure il tempo di affrontare di petto l’invasione dei cuochi volanti, che la moda era già cambiata. E che nuovi fronti si sono aperti. C’è chi ha cominciato a organizzare a casa corsi di cucina, come Mama Isa, che a Padova insegna ai turisti come preparare la pasta fresca e gli gnocchi e poi propone loro anche una cena. E da Londra, con inevitabile contagio via web, sono arrivati gli home restaurant, che sono ormai dappertutto. In provincia non si contano più, basta dare un’occhiata sul web dove c’è la community di Gnammo e dove si moltiplicano le pagine facebook di annunci, con foto di menù, tariffe, regole e pareri degli ospiti, quasi sempre entusiasti, perché l’ambiente è informale, la cena ottima, l’ambiente intimo, le chiacchierate si prolungano fino a notte fonda. E il conto non supera quasi mai i venti euro.

«Si inizia spesso perché si ha la passione per la cucina», racconta Gino Camporese, che da qualche settimana a Padova ha aperto le porte del suo “Scorfano rosso”, un home restaurant dedicato ancora soltanto agli amici. «La crisi nel mio caso non c’entra, ho visto che all’estero funziona, ho viaggiato molto e conosciuto la cucina di tanti paesi e mi piace avere ospiti. Cosa cucino? Prevalentemente pesce, perché mi riesce meglio». Ma c’è anche chi lo fa per procurarsi un reddito senza bisogno di investire. Ed è per questo che l’Appe tuona: «Queste sono imprese a tutti gli effetti, le prestazioni sono pubblicizzate come offerta al pubblico su siti internet, è previsto un pagamento delle prestazioni e dunque si configurano come pubblici esercizi», con conseguente «evasione in materia tributaria e previdenziale», sia in riferimento ai titolari che a chi ci lavora. Se, come sembra, il fenomeno è destinato a espandersi ancora, la guerra si preannuncia durissima.

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