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Quanto mi costa uno Chef?

chef milanese

 

«Un artista».« Un artigiano». «Un folle». Capire cosa significhi essere uno chef non è facile. Le risposte dei diretti interessati sono molte, e decisamente diverse l’una dall’altra. Ma una cosa in comune l’hanno tutti, al di là delle stelle appuntate sul menù: la passione che riesce a rendere il loro lavoro «il più bello del mondo». Oltre che un business niente male, complice anche la straordinaria esposizione mediatica che il mondo della cucina sta avendo negli ultimi anni. Carlo Cracco, Antonino Cannavacciuolo, Bruno Barbieri sono nomi in cui chiunque guardi la televisione, si è imbattuto, in un modo o nell’altro, tra programmi televisivi e pubblicità. Al punto da rendere gli chef delle vere e proprie star, giudizio condiviso per molti, anche dalla guida Michelin. E a dirlo non sono i palati più o meno fini degli avventori: a confermare la progressiva «divinizzazione» dei cuochi sono anche i numeri che tratteggiano un quadro decisamente positivo per il settore, con fatturati aziendali milionari per molti chef (vedi tabella). Secondo un sondaggio di Jfc, società di consulenza turistica e territoriale, (riportato dal quotidiano La Verità), il fatturato complessivo realizzato nel 2016 dai 334 ristoranti stellati in Italia, ha raggiunto i 259 milioni di euro, il 4,1% in più rispetto al 2015. E sempre a proposito di numeri, nelle pagine della Guida Michelin, che a novembre ha alzato il velo sulle nuove stelle, tra il 2016 e il 2017 le novità non sono state poche: i ristoranti blasonati sono diventati 343, tra chi ha perso e chi ha guadagnato, l’Italia è diventata il secondo paese al mondo per numero di stellati, dopo la Francia, bien sur. Di questi 343 ristoranti, 294 vantano una stella, 41 due stelle e otto le prestigiose tre stelle. I ristoranti con una stella sono dunque sei in più rispetto allo scorso anno e quelli con due stelle sono due in più (ma non tutti gli stellati 2016 hanno riconfermato le valutazioni, quindi ci sono anche varie new entry: per la precisione, 5 nella categoria due stelle e 28 nella categoria una stella).Sono numeri importanti, di cui andare oggettivamente fieri, ma volendo andare un passo oltre al luccichio delle stelle, emerge un mondo fatto sì di passione e grandi numeri, ma di altrettanto grandi sacrifici. Insomma, l’idea romantica e sognante dello chef come artista genialoide che si preoccupa solo della giustapposizione di gusti, sapori e sinestesie culinarie non esiste più? «Probabilmente non è mai esistita», conferma Mauro Ricciardi, chef ligure che vanta nel suo palmares una stella Michelin, ricevuta nel 1998 per la sua Locanda delle Tamerici, ad Ameglia in provincia di Spezia, chiusa nel 2013 per prendere in gestione un altro ristorante stellato, la Locanda dell’Angelo (l’ex Paracucchi), sempre nello spezzino. «Noi chef, anzi, noi cuochi, siamo artigiani, lavoriamo tutti i giorni. Non c’è nulla di romantico nel nostro lavoro — racconta Ricciardi —. L’80% di chi decide di aprire un ristorante non lo considera». Così come non considera l’altissimo peso dei costi che incidono non poco sulle cifre (apparentemente) alte raccontate prima.

«Per dare un’idea — spiega lo chef ligure — su 100 che incasso, a me ne rimangono 10. E non posso non tenerne conto nel momento in cui decido di preparare un piatto e di metterlo sul menu a una determinata cifra». Ecco perché Mauro Ricciardi parla di «concorrenza sleale» esercitata dai moltissimi locali («che aprono e chiudono subito») che riescono a offrire piatti di media alta qualità a prezzi decisamente popolari. «Semplicemente non è sostenibile. Danneggiano il loro business — commenta Ricciardi — e contemporaneamente mettono in discussione la nostra cucina». Parallelamente, è inutile far pagare un piatto cifre spropositate se poi non si è in grado di gestire i ricavi. Ma quali sono i costi principali da mettere in tavola, per arrivare a far quadrare l’intera filiera?

«Costi fissi e costi del personale sono al primo posto», elenca Mauro Ricciardi. Un ragazzo appena uscito dalla scuola alberghiera può arrivare a guadagnare fino a 1.200 euro. Cifre che salgono a mano a mano che si sale di grado, fino ai 2.000-4.000 euro di un sous chef o chef in secondo e al 5.000-7.000 euro di un Capocuoco o Executive chef. Il tutto ovviamente a seconda della cucina. I grandi chef giocano un’altra partita, ovviamente, ma è proprio su di loro e sul loro fatturato che pesano questi costi che lo chef stellato Andrea Berton definisce «invisibili». Nel corso della sua carriera, Berton ha raggiunto il traguardo delle due stelle Michelin in due anni consecutivi, 2008 e 2009, come in precedenza era riuscito solo al suo maestro, Gualtiero Marchesi, nel 1977 e nel 1978 in Bonvesin della Riva, dove il cuoco friulano è cresciuto. Nel 2013 apre il Ristorante Berton a Milano e a nemmeno un anno di distanza ottiene una Stella Michelin.

«Un ristorante è un’azienda — spiega Berton — e come tale deve guadagnare. Se non c’è sostenibilità, il ristorante non può stare in piedi, se investo voglio un ritorno». Ma soprattutto il Italia bisogna fare i conti con una scarsa cultura in fatto di gastronomia. «Non tutti capiscono il lavoro e l’impegno dietro un piatto e giudicano eccessive le cifre che si spendono in un ristorante di qualità — commenta lo chef —. Ma il punto è proprio questo: perché per una borsa artigianale si accetta l’idea di spendere tanto, e per una cena di alta qualità no? Siamo artigiani anche noi e maneggiamo materia prima di altissima qualità». Un capitolo importante merita la materia prima che incide «solo» per il 20% circa sul costo finale. Come spiega Berton però, il concetto di materia prima è decisamente più ampio rispetto ai meri ingredienti. «Non c’è solo il tema della scelta e della gestione della materia prima, affidate allo chef o al sous chef. A incidere è anche il costo dell’idea, quel processo cioè che porta alla creazione di un piatto con spese che per ovvie ragioni non possono essere ammortizzate». Altro costo invisibile è quello delle pulizie, magari banale da citare, ma che può arrivare fino ai 7.000 euro al mese. «Per questo essere uno chef — afferma Berton — significa anche essere un imprenditore e un manager, in grado di tenere sotto controllo l’intero processo. Anche quando lavoravo in ristoranti non miei ho sempre voluto avere questo ruolo». Una doppia natura che non allontana un cuoco dal suo lavoro: la creatività dei piatti nasce anche dalla capacità di gestione, resa possibile dalla possibilità di delegare ed eventualmente portare avanti altre attività. «Dal mio punto di vista — spiega Berton — sono convinto che ogni attività debba essere in grado di autosostenersi».

Ma non sono pochi gli chef che si mantengono grazie alle consulenze, ai corsi di formazione, ai libri o all’esposizione mediatica in generale, come se i ristoranti fungessero solo da biglietto da visita. Un bagno di visibilità (spesso in cambio di nient’altro) che si traduce il più delle volte in un aumento dell’indotto per i cuochi -star. Ferma restando l’importanza della presenza fisica dello chef nella propria cucina. Una riflessione che ha fatto anche Antonia Klugmann, futuro giudice di Masterchef che prenderà il posto di Carlo Cracco e che ha deciso di chiudere il proprio locale L’argine di Vencò (una stella Michelin) a giugno e luglio, per poter registrare il programma senza perdere di vista clienti e qualità. Una scelta sposata in pieno anche da Davide Oldani ideatore e fondatore del D’O, ristorante stellato di Cornaredo, in provincia di Milano, emblema della sua cucina pop, diventata case history ad Harvard. «Primo e unico cuoco al mondo — racconta Oldani — . Con il D’O ho creato un metodo di lavoro sostenibile e applicabile a qualsiasi attività, dal ristoratore al farmacista».

Alla base del pensiero: il lavoro deve avere reddito. Anzi, come scrive lo stesso Oldani nelle sue «regole pop», ogni attività deve avere un profitto, ma i prezzi devono essere corretti. Pensiero tradotto in pratica nel suo ristorante dove, andando controcorrente rispetto a molti colleghi, ha deciso di presentare un menù decisamente democratico a mezzogiorno, alla portata di tutti, mantenendo qualità e caratteristiche di qualunque menù stellato. Il risultato? Una lista di attesa di un anno per riuscire a mangiare al D’O, diventato ormai un brand. «Non bisogna dimenticare che noi chef siamo artigiani — riflette Oldani —, il nostro lavoro è legato alla nostra presenza: non possiamo fare la stessa cosa ovunque. Io sono il D’O, se voglio cominciare un’altra attività devo cambiare brand». Una diversificazione che l’ha portato fino in Asia dove ha aperto tre ristoranti, uno a Manila, uno a Singapore e uno a Shanghai, «ma sotto il marchio Foo’d o FOOD», precisa lo chef. Diversificare per lui significa anche collaborare con 24 aziende per consulenze e firmare prodotti per altre dieci. «Ognuno è libero di gestire il proprio business come crede: seguire solo il ristorante o avere più attività parallele — commenta Oldani. — L’obiettivo deve essere sempre quello di una crescita sostenibile nel rispetto delle regole».

Chi rappresenta un unicum nel settore a livello di business sono i fratelli Alajmo e il loro ristorante Le Calandre, tre stelle Michelin, a Rubano in provincia di Padova, gestito in tandem dai due fratelli Raffaele (amministratore delegato) e Massimiliano (chef). Recentemente sono stati definiti in ambito artistico come «The creator Max e The curator Raf». Assieme gestiscono un impero che conta, oltre al ristorante di Rubano, il bistrot Il Calandrino, e il negozio Ingredienti; il ristorante La Montecchia, in provincia di Padova e il bistrot Abc Montecchia; il ristorante Quadri a Venezia in Piazza San Marco e il bistrot Abc Quadri e il Caffè Stern a Parigi. Fino all’ultimo arrivato (sempre a Venezia), Amo.

Ad aver completamente cambiato il business della famiglia padovana è stato l’ingresso nel 2010 del fondo Venice spa, controllata di Palladio Finanziaria, nel capitale della società con il 25%. Una scelta dettata dalla volontà di espandere il tradizionale business di famiglia a un progetto decisamente più ampio.

«Siamo passati dall’essere un’azienda di famiglia — racconta Alajmo — a una società vera e propria, più strutturata, con un maggior rigore organizzativo che ci ha resi più efficaci analitici e competitivi sul mercato. Una scelta inevitabile, con le numerose attività che abbiamo nella ristorazione ». Anche i numeri sono cambiati: da 80 a 150 dipendenti e un fatturato lievitato rispetto al 2010, su cui il costo del lavoro incide particolarmente. «Il fondo Venice è un partner che rispetta il nostro lavoro — spiega l’imprenditore —, è collaborativo e non invasivo. Noi per loro rappresentiamo un piccolo investimento al punto tale che se per assurdo decidessero di azzerare il valore della loro partecipazione probabilmente non si noterebbe nel loro bilancio, ma credo sia una loro scelta di stile, affiancare gli imprenditori e aiutarli ad esprimersi senza imporsi o sostituirsi al l’imprenditore». se ha necessità di una consulenza per aprire un ristorante cliccami

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