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Mafia Mani in pasta

mafia ristorante

 

Come funziona?I boss mettono i capitali, li affidano a gestori incensurati e puntano sul business della ristorazione. È questa la strategia della nuova Mafia imprenditrice.Avete mai visto 8 milioni di euro in contanti? Sono una montagna di biglietti da 500: il tesoretto della criminalità campana, murato nelle pareti dell’abitazione del cassiere più rispettato. Solo una parte dei 20 milioni cash a disposizione della nuova camorra imprenditrice, che si comporta come i moderni fondi d’investimento: mette i capitali e affida la gestione a chi sa farli fruttare.

Puntando su quello che solo i napoletani sanno fare meglio: la pizza. Non i singoli ristoranti, ma alcune di quelle catene di successo che si stanno espandendo alla velocità delle luce in tutta Italia e in tutto il mondo: da Milano a Londra, da Bergamo a Miami, da Dubai a Honk Kong.

È questo l’incredibile meccanismo svelato dall’ultima indagine della procura antimafia di Napoli: un’inchiesta che ha conquistato le prime pagine per il coinvolgimento del superpoliziotto Vittorio Pisani, ma che mostra quanto sia profonda la contaminazione dei quattrini sporchi nell’economia più ghiotta. Soldi che fanno gola a tutti: manager, commercialisti, calciatori, politici, professionisti della comunicazione; senza troppe domande sull’origine di tanti fondi pur di sedersi al banchetto più ricco dell’ultimo decennio. E che così secondo i magistrati sono diventati soci di fatto di boss come Salvatore Di Lauro, uno dei nomi storici della camorra e che si vantava di avere smerciato oltre seicento chili di cocaina in poche settimane.

IL BOSS È SERVITO
Che ai padrini sia sempre piaciuto possedere ristoranti è storia antica. Tutti i grandi capi avevano un loro locale, che serviva per le riunioni della famiglia e per far girare un po’ di denaro. Posti spesso sfarzosi, con un lusso volgare e i conti in perdita: una sorta di ufficio di rappresentanza della cosca. Ma questi esercizi alla buona sono stati sostituiti da una strategia sempre più industriale. D’altronde la ristorazione offre guadagni favolosi a chi ha le vetrine giuste, nei punti strategici del centro città o dei paradisi turistici. E il Made in Italy che rende di più è quello che finisce nel piatto, trasformando spaghetti e margherite in oro.

Quando un anno fa un’inchiesta di “Repubblica” basata anche su dati di Coldiretti ha lanciato l’allarme, parlando di 5 mila ristoranti in mano alla mafia, molti hanno pensato che la stima fosse esagerata. Eppure una serie di indagini in tutta Italia stanno cominciando a fare luce su cosa si nasconda dietro l’inarrestabile crescita di pizzerie in franchising vesuviano, pub dai nomi irlandesi e gestori calabresi, bisteccherie texane con dietro società siciliane.

Tutte legali, con titolari incensurati e la capacità di rilevare immobili dai costi siderali e ristrutturarli senza badare a spese. Vere fabbriche di proventi, spuntate come funghi in un decennio. E mentre le cronache si interessavano di casi clamorosi – come il sequestro del Café de Paris in via Veneto o negli anni Novanta l’incredibile gelateria di ‘ndrangheta nella Galleria di Milano – queste nuove insegne dai fondi illimitati hanno continuato a dilagare.

In molti casi si tratta di reali miracoli imprenditoriali, senza finanziamenti criminali; in altri la rapidità nel rilevare spazi giganteschi in quartieri ad altissimo valore immobiliare ha alimentato più di un sospetto. Ma dimostrare il reato di riciclaggio è difficilissimo, se non impossibile. A Milano la Finanza ha aperto istruttorie su costellazioni di trattorie dai marchi simili create da tante ditte autonome di emigrati pugliesi dopo il boom del contrabbando sulle coste salentine. O di meno sfavillanti catene per pasti veloci allestite da giovani con cognomi che hanno fatto l’epopea di Cosa nostra. Senza però trovare mai prove concrete di collusioni.

Anche la stampa economica si è interrogata sulla complessità delle architetture societarie, con holding internazionali per controllare semplici pizzerie. Ma nulla che fosse fuorilegge. Anzi, si tratta quasi sempre di aziende che funzionano alla grande: pietanze gustose, servizio rapido, buon rapporto prezzo-qualità. Tutti felici e contenti: clienti e ristoratori. Adesso l’inchiesta napoletana solleva le tovaglie e mostra l’ingrediente segreto che ha fatto lievitare alcune di queste iniziative.A far saltare i tavoli è stato Salvatore Di Lauro, l’ultimo re dei “Capitoni” che hanno guidato la camorra nella zona nord di Napoli. Un signore che non temeva nulla, presenziava ai gran premi di Formula Uno e frequentava i campioni del pallone: fu lui a intervenire per recuperare gli orologi d’oro rubati a Maradona. Nel frattempo inondava l’Italia di droga, smerciando partite dal quintale in su.

Poi, dopo un altro arresto e la segregazione nel carcere duro del 41 bis, ha deciso di collaborare, parlando di una delle ultime operazioni: 2 milioni di euro, investiti nei ristoranti di Marco Iorio. Un nome che ha sorpreso gli inquirenti, ma che era già stato messo a verbale da un altro dei grandi capi della camorra: il suo nemico Giuseppe Misso, il padrone della Sanità che si era informato sui patrimoni del rivale prima di fargli guerra. Iorio è l’enfant prodige della ristorazione napoletana, capace di lanciare decine di locali e farli fruttare, con amicizie trasversali nella Napoli che conta. Tra i suoi soci ci sono l’ex senatore di Forza Italia Antonio Maione e l’ex deputato Antonio Martusciello, uno dei fondatori del partito berlusconiano e attuale commissario dell’Autorità per le telecomunicazioni.

Ci sono poi calciatori come Fabio Cannavaro, titolare di un quinto della compagine, e altri – Borriello, Palladino e Molinaro – che secondo le intercettazioni stavano entrando nell’impresa. Ma i magistrati ritengono che Iorio sia stato “socio di fatto per oltre dieci anni” di un soggetto molto più opulento e ingombrante: Mario Potenza, ‘o Chiacchierone, l’erede della famiglia che ha dominato il contrabbando di sigarette. Potenza è ricco sfondato: è lui che nascondeva gli 8 milioni di euro murati nelle pareti di casa. Secondo gli investigatori ha moltiplicato il tesoro dei tabacchi attraverso l’usura. Potenza è una “one man bank”, che prestava soldi soltanto agli imprenditori, fino a mezzo milione con un tasso del 2 per cento al mese. È stato intercettato mentre riscuoteva le rate di quattro di questi “finanziamenti” e prometteva: “Sparo prima a te e poi a lui”. I pm ritengono che non ci sia un confine definito tra le sue quote e quelle di Iorio e hanno ordinato il sequestro di 17 locali.

Nella lista nera ci sono le pizzerie Regina Margherita, i bar Cocozza, i pub Nexxt mentre nelle intercettazioni si cita un’altra decina di sigle – tra cui nomi celebri dei Parioli – su cui si sta indagando. Le attività incriminate sono a Napoli, Caserta, Torino, Bologna, Genova, Roma mentre altre stavano per venire aperte a Bergamo, Varese e si preparava l’espansione internazionale del gruppo dove soldi di imprenditori, politici, calciatori e camorristi si mescolano allegramente. Perché le aziende andavano benissimo: al telefono il gestore del Regina Margherita di Bologna comunicava al patron Iorio di avere fatto 350 coperti con 7 mila euro di incasso in una sera non particolarmente fortunata.

LA SUPPLICA DEL PADRINO
Nei rapporti tra Iorio e i suoi finanziatori camorristi secondo i magistrati non c’è traccia di violenza. Anzi, è il boss a pregare di accettarlo come socio. Salvatore Di Lauro racconta come nel 2006 chiese di investire 2 milioni di euro. Dichiara di avere insistito perché il suo antico compare Potenza lo mettesse in contatto con Mario Iorio. E di avere trattato perché prendesse i suoi soldi: in cambio dei 2 milioni voleva 150 mila euro l’anno. Iorio lo avrebbe respinto, offrendone 80 mila: “Noi vendiamo pizze, mica cocaina…”. Il padrino però promette anche servizi accessori, come la protezione contro il racket: “Ricordo che non mancai di dirgli: “E se poi vi fanno l’estorsione il problema ve lo risolve Cannavaro!””. Alla fine si accordano per 100 mila. Ossia il 5 per cento annuo: quale banca oggi concede un fido del genere? Un’iniezione di liquidi che si possono trasformare in nuovi immobili di pregio e altri locali. Che a loro volta sfornano altri guadagni in nero: nei nastri si parla di “40-50 mila euro al mese di nero per ogni ristorante… Almeno 800 mila euro l’anno”. E per evitare disturbi, nella contabilità “ci sono spese che non capirai mai perché sono regali alla Guardia di finanza”. Il tesoro poi viene trasferito in Svizzera, dove Iorio aveva traslocato anche la famiglia, con un giro di fatture fittizie.

Quei capitali sono così pronti per animare nuove holding. La Dia ha registrato le trattative con Geppi Marotta, uno dei big della cucina campana vincente contro il quale non sono state mosse accuse: Marotta nel 2002 ha inventato I fratelli La Bufala, che adesso tra gestione diretta e franchising hanno 95 locali. Nelle telefonate si discuteva con importanti commercialisti della creazione di una compagine per potenziare la rete estera dei “la Bufala”: il 30 per cento a Iorio, una quota uguale per Marotta, il resto a Cannavaro, Palladino e Molinaro. E Cannavaro è anche tra i fondatori di Rossopomodoro, di cui era inizialmente partner pure Marotta.

Non solo. È stata registrato il piano per inventare un fondo destinato “a gestire un investimento di 30 milioni a favore di quattro cordate imprenditoriali, al fine di rendere più difficile il rintraccio dei capitali di ogni soggetto”: si trattava di un polo con “almeno otto prestigiosi locali napoletani, una copertura tombale per i pregressi investimenti degli Iorio”. Oltre a Iorio, al progetto – scrivono i giudici – avrebbero partecipato Marotta, Antonio Della Notte (titolare tra l’altro di Antonio & Antonio, Gusto & Gusto e del celebre Zi’ Teresa) e Marco Pane (creatore di Les Garçones, Nero, Vanilla e Mangia-fuoco). La retata ha fatto saltare trattative e contatti, impedendo al denaro di narcos e usurai di spargersi sui piatti di tutto il mondo.

IL RISCATTO IN CUCINA
Una storia completamente diversa è quella che nasce trent’anni fa in una minuscola friggitoria di via Foria a Napoli chiamata Frijenno magnanno. La gestiva la famiglia Righi che nel 1983 viene coinvolta nell’inchiesta sul sequestro del gioielliere Luigi Presta, rilasciato dopo il pagamento di un miliardo e 700 milioni di lire. Ciro Righi e alcuni dei suoi familiari furono arrestati dai carabinieri nel maggio 1983 per avere ripulito una parte del riscatto. Già all’epoca gli investigatori li ritenevano affiliati alla camorra della Nuova famiglia. Ciro Righi e i figli Luigi e Salvatore furono condannati per riciclaggio. Un altro figlio, Antonio, fu arrestato nel 1998 come “mente logistica del clan Contini”.

Ma Salvatore Righi, scontata la pena, con la sua famiglia avvia una improvvisa marcia su Roma. Inizia ad aprire nel centro storico una serie di pizzerie con i marchi Pizza Ciro o Ciro e Ciro. La margherita è ottima, il personale ci sa fare e l’avanzata per Salvatore Righi, considerato la mente e il perno economico della famiglia, è inarrestabile. I locali – intestati a società amministrate da due commercialisti – nel giro di pochi anni sbucano negli angoli più suggestivi della città. Con Salvatore e il fratello Antonio sempre presenti alla cassa.

“L’Espresso” analizzando i flussi societari e le attività che farebbero capo alla famiglia ha contato 73 sigle aperte in 15 anni: solo a Roma sono attivi 17 tra pizzerie e ristoranti, più un pub famoso per il jazz.
Nominalmente sono controllate da una complessa serie di scatole cinesi, che porta periodicamente al cambio di insegne da Pizza Ciro a Ciro e Ciro fino a crearne di nuove come Sugo. E poi sbarcare a Viareggio e Rimini. I gestori però parlano napoletano e sono spesso familiari diretti dei Righi. Nulla di illegale. Ma, secondo quanto risulta a “l’Espresso”, alcuni collaboratori di giustizia hanno indicato i fratelli Righi come persone molto vicine al clan Contini. In particolare il pentito Luigi Giuliano avrebbe rivelato in passato ai pm napoletani il ruolo che i componenti della famiglia avrebbe svolto per riciclare il denaro per conto dell’organizzazione camorristica. Il tenore di vita di Salvatore Righi e dei suoi parenti è superiore ai suoi redditi ufficiali. Nel 2006 ha messo in liquidazione la Pizza Ciro srl, dove compariva come socio. Da allora Salvatore è ufficialmente scomparso dai registri delle società, ma nelle pizzerie continua a comportarsi come il padrone.

Se il PADRINO vuole farmi un offerta che non posso rifiutare cliccami           “accetto tutte le forme di pagamento,dal contante alle teste di cavallo mozzate,il tutto è fatturabile”

NOTABENE

  • La mafia è un fenomeno naturale (esempio: autocombustioni di edifici, automobili, macchine da cantiere,…)
  • La mafia non esiste.
  • Se la mafia esiste, allora non esistono le persone.
  • Se esistono le persone, allora non esiste la mafia.
  • La mafia è un effetto ottico.
  • Se non ci credi vai a vedere ad Arcore.
  • Recenti studi sembrano dimostrare che la mafia non esiste nemmeno al nord e non ha mai avuto alcun ruolo sui lavori di costruzione delle strutture che hanno ospitato l’Expo 2015 a Milano.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

COMUNICATO STAMPA

L’autore di quest articolo si dissocia completamente da quanto scritto fin qui, ed è indignato che le sue parole siano state distorte da questo sito di chiaro stampo giustizialista. Quello che voleva dire non è quello che intendeva dire, quello che voleva far intendere è possibile che sia stato inteso in malo modo e comunque, anche se a buon intenditor poche parole, lo negherà a prescindere. Il fatto che la sua casa sia bruciata non ha alcun rapporto con questa dichiarazione spontanea.

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